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Modica, una giornata sul priore di Barbiana a cinquant’anni dalla morte

Don Milani: fare i conti con la realtà, avere coraggio

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«Don Milani: un tipo pericolosissimo!»: così ha più volte detto, tra la battuta e la verità, Sergio Tanzarella su don Milani, al mattino del 25 dicembre, in un incontro con le classi quinte dei licei artistico e scientifico e la sera in una Domus Sancti Petri pienissima, come non si vedeva da tempo. La figura e il messaggio di don Milani sono stati ricostruiti da Sergio Tanzarella, professore di Storia del cristianesimo alla Facoltà teologica meridionale di Napoli e alla Gregoriana di Roma, a partire da sette anni spesi per ricostruire il suo epistolario (qualche migliaio di lettere) per l’Opera Omnia e quindi darci una più rigorosa visione di chi era effettivamente il priore di Barbiana. Le coordinate della vita già dicono molto: nato da una famiglia ricchissima, soprattutto culturalmente, muore parroco di una sperduta e disabitata parrocchia di montagna, dopo anni di sofferenze fisiche, ma soprattutto morali. Nel mezzo ci sta una forte e decisa personalità, la sua decisione di non proseguire gli studi universitari e voler fare il pittore, la sua improvvisa conversione («fa un’indigestione di Gesù Cristo») e la decisione di farsi prete. E quindi la sua scuola, i suoi scritti frutto di un rigorosissimo lavoro di confronto, il suo coraggio radicato nel primato della coscienza sul piano personale, la centralità del Vangelo sulla scia dei profeti sul versante della fede e la base comune della Costituzione sul piano civile. “Sono state molte le provocazioni che da don Milani sono passate a chi ascoltava. Anzitutto – spiega Maurilio Assenza, direttore della Caritas - un invito a fare i conti con il 'principio della realtà'. Una delle prime cose che don Milani comprende è che la sua gente è sfruttata (gli operai a San Donato, i figli dei pastori a Barbiana) e che non capisce e non si fa capire perché possiede un vocabolario di 200 parole, che servono solo a leggere la “Gazzetta dello sport” e che, per passare da ‘bestie’ a ‘cristiani’, prima bisogna potere essere umani, poter avere la ‘parola’. Ecco perché fa il maestro. E lo fa con la scrittura comunitaria, e lo fa credendo che insieme ci si arricchisce: 7+7 non fa 14 per lui, ma 49 se si lavora insieme. Il contrario dell’individualismo. Il contrario del rincorrere le eccellenze, per invece non perdere nessuno. Quindi una scuola in cui chi è più avanti aiuta chi è più indietro. Una scuola di 12 ore (che è meglio per i figli dei pastori di stare a mungere le mucche e pascolare le pecore), una scuola in cui si legge il giornale, si va all’estero per imparare le lingue. Una scuola che insegna la differenza tra erudizione e sapere: l’erudizione serve per sé, il sapere si condivide. Una scuola opposta a quella che oggi riduce spesso il sapere a delle crocette e alla rincorsa delle eccellenze, con quell’individualismo e competizione che poi si ritrovano anche nella società. Una scuola per la quale non c’è metodo, ma c’è l’essere, l’essere maestri che hanno a cuore la crescita di uomini e cittadini sovrani! Ecco perché don Milani diventa pericolosissimo: prenderlo sul serio significa ribaltare tanta retorica, tanta accademia, tanta ipocrisia. C’è di più: don Milani è uno che ha rinunciato totalmente al potere e che lo denuncia nei suoi meccanismi perversi e deresponsabilizzanti. Sulle orme dei grandi profeti biblici lui testimonia e insegna la parresia, il vivere e parlare secondo verità. Da qui la sua denuncia, nella “Lettera ai giudizi”, sulle mistificazioni riguardo le guerre e l’invito a fare storia non con la cronologia, ma con l’intelligenza. Per capire come milioni di morti nelle guerre sono frutto di affari economici e del nascondersi dietro l’obbedienza ad un ordine. E ancora: l’amore. Per don Milani – continua Assenza - non è un sentimento superficiale, ma una relazione forte per cui non può essere amore di tutti che diventa amore di nessuno, ma deve essere amore concreto, di pochi, di quelli che ci vengono affidati. «Ama così, e troverai Dio» - scrive a Nadia Neri che gli chiede come orientarsi nella vita, e lo fa come per tante sue lettere, non da una cattedra comoda, ma dalla cattedra di chi gravemente ammalato continua a fare scuola fino alla fine. E scrivere (ritorna questa pratica) diventa un atto di amore. Certo, non una scrittura qualsiasi ma una scrittura per «intendere, farsi intendere, intendersi». Parola da dare a tutti i poveri del mondo, perché se tutti i poveri avranno la parola allora non ci saranno più guerre. Tutto con intensità totale, «senza bestemmiare il tempo, dono di Dio»”. Si è aperto un anno in cui don Milani sarà riletto (già la sera del 25 c’è stato anche il contributo del prof. Vecchio sul primato della coscienza) “ma intanto chi era presente ha percepito di trovarsi di fronte a un uomo che aiuta ad essere veri, con coraggio, pagando il prezzo necessario ma anche potendo testimoniare e diffondere quella passione che si condensa nell’I Care”.

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