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La "Festa dei Morti" in Sicilia

Un giorno speciale fatto di silenzio, regali, dolci e il ricordo di chi abbiamo amato e non c'è più

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La tecnologia e la modernità difficilmente possono scalfire o intaccare le tradizioni, gli usi e i costumi di una regione. Se in quasi tutta Italia il 2 novembre è semplicemente il giorno in cui si va a deporre un fiore sulla tomba dei propri cari, in Sicilia la "Festa dei Morti" (una festa, per l’appunto, non una triste ricorrenza) è sentita nel profondo, coltivata e portata avanti con l’obiettivo di rafforzare il collante con il mondo dei cari che abbiamo tanto amato e che non sono più al nostro fianco.

E poiché non c’è festa senza regali e senza dolci, le leggende del passato, che sembrano arrivare addirittura dal X secolo, ci hanno consegnato una storia che parla di doni che i morticini portano nottetempo, tra l’1 e il 2 novembre (soprattutto, ovviamente, giochi per i più piccoli). Si tratta, com’è ovvio, di regali acquistati da genitori e parenti nelle tradizionali "fiere" che, in questi giorni tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, si svolgono in molte parti della Sicilia, e che vengono poi nascosti in casa e trovati dai bambini, al mattino presto, con una sorta di caccia al tesoro. Nel corso della giornata, poi, dopo il piacere del gioco, arriva il dovere. Vestiti quasi a festa, si va al cimitero.

Ma non è un semplice momento in cui si depongono fiori su una tomba, è una specie di rituale, come ricorda una collega e amica giornalista, Dolores Carnemolla, nel suggestivo post che ha voluto condividere oggi con gli amici di Facebook: "Eravamo bambini e ci portavano al cimitero preparandoci come per un incontro importante. I vestiti belli, quelli della domenica, pettinati ed in ordine. Si usciva per andare a trovare i morticini. Compravamo i fiori fuori dal cimitero e non c'era nulla di triste in quei momenti. Anzi. Erano mattine quiete, senza troppa gente intorno. Cieli del sud, azzurri mediterranei e aria tiepida. I miei genitori sceglievano sempre le ore più adatte. I nostri cimiteri erano quello di Mazzarelli oppure quello di Rahal Gdid, a Malta. Li venivamo guidati per mano, attraverso storie e ricordi e tutto partiva dalle fotografie in bianco e nero, sulle lastre di marmo. Di lacrime sui volti dei miei genitori non ne vedevo: il tempo le aveva asciugate. Però c'era silenzio e serietà nel raccoglimento. Appoggiavamo baci delicati, con le mani, sulle fotografie e ci sembrava bello partecipare, così. La morte, in quegli anni d'infanzia, era solo un luogo con vialetti alberati e fiori sulle tombe".

E poiché in Sicilia non c’è festa che non porti a tavola, ecco che la tradizione parla, di dolce e biscotti tipici come i crozzi 'i mottu (ossa di morto) o i pupatelli ripieni di mandorle tostate, i taralli (ciambelle rivestite di glassa zuccherata) i nucatoli e i tetù bianchi e marroni, i primi velati di zucchero, i secondi di polvere di cacao. Frutta secca e cioccolatini, accompagnano 'U Cannistru', un cesto ricolmo di primizie di stagione, e altri dolciumi, in primis la frutta di martorana e i Pupi ri Zuccaru (statuette di zucchero dipinte, ritraenti figure tradizionali).

E’ una mattina strana quella della “Festa dei Morti”, in Sicilia. Nel calendario la data non è segnata in rosso e, di conseguenza, si lavora regolarmente, ma è qualcosa nell’aria a far capire che non è un giorno come tutti gli altri. Aleggia ovunque uno strano silenzio reverenziale, spezzato solo dal suono delle campane e dalle urla festanti dei bambini che giocano in strada, prima che le mamme li richiamino in casa per il pranzo o per prepararsi per andare al cimitero. E chi meglio di uno scrittore siciliano DOC come Andrea Camilleri poteva riuscire a mettere su carta, e a sintetizzare in un racconto, le emozioni di questa giornata di festa che festa non è?

“La Festa dei Morti in Sicilia
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire”.
(da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri)

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